In occasione di Artelibro 2011 incontriamo lo storico e critico d’arte Stefano Zuffi

  • Lei ha curato per l’ottava edizione di Artelibro il ciclo di conferenze dal tema la Forza del Mito: perché la scelta di questo tema?
Stefano Zuffi

La scelta del tema è legato alla generale cornice in cui quest’anno si svolge Artelibro ovvero Archeologia/Archologie, che fa riferimento ai 2200 anni della fondazione della Bologna romana e 130 anni dell’apertura del museo archeologico, quindi  l’alleanza con l’archeologia è il tema conduttore di questa ottava edizione.

Poiché all’interno di Artelibro il coinvolgimento è soprattutto rivolto a degli specialisti dell’arte nel caso dei relatori e nel caso del pubblico ad amanti dell’arte, ecco che molto presto all’interno del comitato scientifico si è deciso di orientarsi verso questo tema, cioè il Mito inteso come sopravvivenza della classicità e dell’antico attraverso i secoli.

  • Lei ha dedicato il suo intervento a due grandi maestri della storia dell’arte, Tiziano e Rembrandt, mostrandoci come questi artisti non si sono limitati soltanto a tradurre in pittura i temi mitologici, ma come loro stessi hanno interpretato la realtà del mito. Ad esempio in Aristotele che contempla il busto di Omero, dipinto da Rembrandt, troviamo la presa di coscienza da parte del filosofo greco verso il suo antico, o Tiziano nella Punizione di Marsia , in cui mostra il Re Mida dubbioso rispetto alla sua scelta. A suo parere, quando un artista si sente libero di interpretare i soggetti scelti?

Questa è una domanda molto delicata ed è forse una delle domande chiavi in generale della storia dell’arte, forse quando il rapporto con il committente, con le aspettative del pubblico, il rapporto con il mercato ma più semplicemente anche il rapporto con il gusto della propria epoca di cui tutti noi siamo parte, possono apparire dei vincoli alla presunta libertà creativa dell’artista.

Ecco, io credo che il termine libertà comprenda il fatto di avere dei confini, la libertà non è uno spazio aperto in modo indeterminato ma la liberta di muoversi entro un orizzonte, e questo orizzonte è nel caso degli artisti è l’orizzonte della storia, dell’epoca e della possibilità tecnica che essi potevano avere.

Nei due casi specifici, quello di Tiziano e di Rembrandt, sono due artisti che hanno molto in comune ma anche forti differenze, e per motivi diametralmente opposti in un periodo piuttosto avanzato della loro vita, hanno potuto agire o meglio si sono sentiti in condizione di agire, al di fuori delle aspettative delle regole dei dettami dei loro committenti, per motivi appunto opposti, Tiziano perché era ricchissimo e Rambrandt perché era poverissimo.

Tiziano poteva permetterselo perché la produzione della sua bottega era talmente abbondante, che lui si è potuto ritagliare uno spazio creativo autonomo e molto personale. Invece Rembrandt all’opposto, era praticamente uscito dal mercato, non aveva più acquirenti e vincoli quindi poteva dipingere rivolto non ad una contingenza ma più semplicemente rivolto solo verso la storia.

In entrambi i casi si tratta di persone mature, significa quindi avere un’intensa esperienza umana alle spalle, quindi la capacità di vedere come i miti classici, i miti antichi al di là dell’aspetto letterario e accademico del loro dettato e al di là della trasposizione di immagini di poemi classici, sono metafora dell’esistenza umana.

Per cui questa capacità di interpretare i miti o i personaggi dell’antichità non come compito accademico ma come presenza viva, a volte perfino dolorosa, dell’esperienza umana è ciò cheavviene sia per Tiziano che per Rembrandt.

  • Il mito attraverso la figura di Venere, di cui anche Tiziano si fa interprete,  narra la bellezza, ma mai fine a se stessa, mai svuotata di significato. Il nostro tempo pur ricercando ossessivamente la bellezza, sembra essere lontanissima dall’immaginario mitico.  Come è cambiato il significato di bellezza nell’arte?

L’immaginario della bellezza nell’arte è cambianto radicalmente nel corso del tempo, faccio un esempio: una delle opere che ho mostrato nel mio intervento per Artelibro sull’opera di Tiziano e Rembrandt è stata La venere di Urbino di Tiziano, che appare, almeno ai miei occhi, come una bellissima ragazza.

E bene, mi ricordo una trasmissione televisiva, di qualche anno fa, in cui un chirurgo plastico, utilizzando una riproduzione dell’opera, indicava tutte le imperfezioni fisiche e quindi tutti gli interventi di liposuzione, modellazione delle labbra, e tutti gli interventi che si sarebbero potuti fare per migliorare l’aspetto di questa ragazza, idea dalla quale io ero lontanissimo, anche perché se dovessi trovarmi ad indicare una bella figura nella storia dell’arte indicherei proprio quella, quindi la bellezza è qualcosa di estremamente personale difficilmente definibile.

Però in generale si può dire che il modello della bellezza cambia, e la storia dell’arte ci aiuta a vedere come l’ideale della bellezza possa essere molto differente tra un secolo e l’altro, per esempio nel ‘500 e nel primo ‘600 è abbastanza evidente che all’idea di bellezza si associava l’immagine di ragazze molto formose, addirittura eccessive, almeno secondo i nostri standard. Se pensiamo all’opera di Rubens, tenendo conto però che per l’estetica dell’epoca quello era un ideale di bellezza molto ambito e molto piacevole.

Poi possono cambiare epocha, ad esempio nella prima conferenza dedicata a questo ciclo si è parlato del neoclassicismo, e di come le giovani donne dell’aristocrazia parigina all’inizio dell‘800 giravano per Parigi vestite di leggerissimi pepli all’antica e con sandali aperti ai piedi incuranti del freddo, forse anche la diffusione delle malattie polmonari diffusesi in qual periodo possono essere legare a questo ideale di bellezza.

Come la definizione di bellezza sia sfuggente, possiamo raccontarlo con un piccolo ma significativo aneddoto: si racconta che un pittore antico dovendo dipingere una Venere, bella tra le belle, decise così di scegliere nella propria città sette ragazze ognuna delle quali era particolarmente avvenente per una parte del corpo, i capelli, il seno, gli occhi, le gambe e così via, pensando che scegliendo fior da fiore il meglio del meglio degli attributi avrebbe prodotto un’immagine meravigliosa. Ma così non fu, perché nell’insieme la figura aveva più le sembianze di un automa privo di vita, senza grazia, per cui la bellezza è una dote legata a tantissimi fattori, difficilmente definibili.

  • Possiamo ancora dire che il mito è uno dei modi con cui l’uomo riesce a raccontare e interpretare se stesso?

Assolutamente si, infatti come dicevamo, il mito come espressione allegorica dei sentimenti umani ci mostra una cosa molto importante alla quale noi non vogliamo credere, o forse alla quale facciamo fatica a credere, ma che è così, e cioè che nella sua struttura più profonda, nei suoi bisogni più reconditi, nelle sue emozioni più vere, l’uomo è sempre lo stesso. E quindi i miti che sono racconti antichi, più che bimillenari, e che ci tramandano la memoria letteraria favolosa di uomini e di donne in forma umana, non fanno altro che parlare di noi stessi.

a cura di Maria Rapagnetta